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La religione come patologia

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    00 27/04/2012 16:13

     

    Sigmund Freud

     

    La religione come patologia

    di Maria Mantello

     

     

     

     

    “Come se il mondo non avesse già abbastanza enigmi, ci tocca anche capire come quegli altri poterono contrarre la fede in un essere divino e donde questa fede tragga il suo immenso potere, capace di sopraffare ragione e scienza” (Sigmund Freud, Opere, vol.11, Boringhieri, Torino 1979, p.440)


    La religione è innocente?

    Grandi filosofi, prima di Freud, avevano messo a dura prova le credenze religiose. Basti ricordare almeno, che tra ‘700 e ‘800 le basi del confessionalismo (cristiano-cattolico in particolare) erano state irrimediabilmente poste in crisi dalle acute analisi di Hume, Kant, Feuerbach, Marx, fino al celeberrimo “Dio è morto” di Nietzsche.

    Spazzata via ogni pretesa ontologica, visto che “l’esistenza non è un predicato deducibile da un concetto”,

    Dio appariva una congettura utilizzata come consolazione, controllo sociale, inibizione delle energie vitali ed intellettuali. Ma nessuno, prima di Sigmund Freud, era giunto a dissolvere la religione in patologia.

    Lo scandalo fu grandissimo.

    Non si perdonava al fondatore della psicanalisi di aver spiegato che la religione è un’illusione, dove il credente smarrisce il senso della realtà a vantaggio di fantasie psichiche, che diventano delirio collettivo nell’acquiescenza del gruppo.

    In Psicologia delle masse ed analisi dell’Io (1921), Freud parla di annullamento della personalità cosciente e di rapimento ipnoide degli individui, che pensano per immagini prive di riscontro empirico.

    Poiché nella religione, la fede è premessa, mezzo e fine, si comprende come i meccanismi d’induzione suggestionale possano essere talmente contagiosi per i credenti, da renderli impermeabili a dubbi e incertezze. “Noi crediamo per fede!”

    In questo motto si corazza l’automatismo psichico, mentre la singolarità annega nell’omologazione identitaria.

    Freud ne L’avvenire di un’illusione (1927) scrive: “Prendiamo in considerazione la genesi psichica delle rappresentazioni religiose. Queste, che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni [...]. Caratteristico dell’illusione è derivare dai desideri umani; per tale aspetto essa si avvicina ai deliri psichiatrici [...].

    Chiamiamo dunque illusione una credenza, quando nella sua motivazione prevale l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinunzia alla propria convalida ” (L’avvenire di un’illusione in Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 170-171).

    Una diagnosi che disturba ancora oggi.

    Ma “la psicanalisi è un metodo di ricerca, uno strumento imparziale”(ibidem,p.177). Pertanto, di fronte ai meccanismi di proiezione, rimozione, razionalizzazione, sublimazione del fedele, Freud non può tacere la diagnosi sulle credenze religiose: “un narcotico con cui l’uomo controlla la sua angoscia, ma ottundono il suo cervello”.

    L’umanità, dovrebbe impegnarsi a liberarsi da questa illusione: usufruirebbe di energie razionali preziosissime per la costruzione della stessa “civiltà”. Ma l’ impresa è ostica, visto che “quando i problemi sono quelli della religione, gli uomini si rendono colpevoli di tutte le possibili insincerità e scorrettezze intellettuali” (ibidem, pp. 172-173). Del resto, lo stesso cardine della fede –nota Freud- non sta proprio nel “credo quia absurdum” teorizzato dai padri della Chiesa?

    Un’antinomia con cui hanno dovuto fare i conti i teologi di ogni tempo. Questi, sforzandosi di dare una struttura logica ai principi religiosi, si sono però invischiati in una tale ragnatela di contraddizioni e paradossi, che infine sono stati costretti a rifugiarsi nell’alveo della sovrannaturale verità rivelata: “Le prove da essi tramandateci sono contenute in scritti che di per sé comportano tutti i caratteri dell’inattendibilità.

    Sono pieni di contraddizioni, rielaborati, falsificati; dove ragguagliano su convalide fattuali risultano essi stessi privi di convalida.

    Non giova gran che affermare [...] che traggono origine dalla rivelazione divina; già di per sé tale affermazione è infatti parte delle dottrine [...] e nessuna proposizione può provare se stessa” (ibidem, p.167)

    La religione appare quindi, un esercizio filologico su verità supposte, la cui garanzia sarebbe il mistero divino. Il dio rivelato e metabolizzato nel cristianesimo, che Freud storicamente considera la “forma ultima assunta nella civiltà bianca, cristiana” (ibidem, p. 160), è una costruzione del credente, che in nome di dio inibisce ogni dubbio.

     Ma allora, possiamo prendere il devoto a modello di individuo compiuto, come i teologi vorrebbero?

    Freud utilizza una metafora: “può l’antropologo darci l’indice cranico di un popolo che segue il costume di deformare con le fasciature le teste dei bambini sin da quando son piccoli?” (ibidem, p. 187)

    Insomma, se in nome della fede si comprime la razionalità: “E’ proprio impossibile che una parte notevole di colpa in questa relativa atrofia l’abbia l’educazione religiosa?”(ibidem, p. 187).


    Sintomatologia del Dio Padre 

    La dimensione di massa della fenomenologia religiosa è fondamentale per la sua diffusione, ma anche per occultarne la patologia.

    Riportiamo un giudizio di particolare efficacia sintetica, che Freud formula nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938) rispetto ai dogmi delle religioni: “portano in sé il carattere dei sintomi psicotici, ma al contempo, come fenomeno di massa, sfuggono alla maledizione dell’isolamento” (in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, vol.11, p.407).

    Il credente non prova disagio per queste illusioni. Non sente il bisogno di ristabilire il senso della realtà. Considera Verità le sue credenze, perchè sa di condividerle col gruppo dei fedeli. Sfugge così al peso dell’isolamento, che è la “maledizione” di ogni altra sintomatologia nevrotica.

    In questa prospettiva, i rituali religiosi possono costituire un formidabile rifugio per le nevrosi individuali.

    In uno scritto del 1907, Azioni ossessive e pratiche religiose, Freud afferma: “Certo non sono io il primo a notare la somiglianza delle cosiddette azioni ossessive dei nevrotici con le pratiche mediante le quali il credente attesta la sua devozione religiosa. [...]  Coloro che eseguono azioni ossessive o cerimoniali appartengono -accanto a quelli che soffrono di pensieri, rappresentazioni, impulsi coatti- a una particolare unità clinica, per la quale abitualmente si usa il termine nevrosi ossessiva”. (in Opere, Boringhieri, 1980, vol.5, p.341).

    Come il nevrotico trova consolazione alla sua angoscia nella coazione a ripetere alcuni comportamenti, così il fedele nelle cerimonie religiose.

    Si tratterebbe appunto di una medesima “unità clinica”. Nella reiterazione ritualistica, il credente sposta e condensa fondamentali istanze pulsionali su un oggetto: il dio che adora.

    Freud analizza questo investimento psichico, che sta alla base della religione del Dio-padre. E’ questo un dio unico ed onnipotente, di fronte al quale il fedele si sente sempre inadeguato, così come lo era da bambino davanti alla “figura genitoriale”.

    Ne era dominato e per questo ha tremato. Ma ne ha ricevuto anche amore e protezione. Ha provato laceranti e ambivalenti sentimenti. Questa figura genitoriale, introiettata come potente Super-io, è traslata nella religione del Dio-Padre. E continua ad incombere anche sul figlio adulto, fragile e disobbediente, che cerca guida e conforto nel padre ideale a cui resta legato (religare = legare, da cui religione):

     “il motivo che la psicoanalisi adduce per il formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua motivazione manifesta [...]. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l'insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico sul modo di reagire dell'adulto contro la sua fatale impotenza, ossia sulla formazione della religione” (L'avvenire di un'illusione, cit, pp. 163-164).

    E’ questa la spiegazione psicanalitica, ma anche storica, della nascita della religione del Dio unico: “il primitivo ha bisogno di un dio come creatore del mondo, capo supremo della tribù, protettore personale [...]. L’uomo [...] del nostro tempo, si comporta alla stessa maniera. Anche lui resta infantile e bisognoso di protezione persino da adulto; pensa di non potere fare a meno del sostegno del suo dio [...] e quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può donare” (L’uomo Mosè e la religione monoteistica, saggio terzo, cit, p.445).

    A questo Super-io deificato egli sacrifica con orgoglio, come faceva da piccolo col genitore, le pulsioni vietate per guadagnarsi approvazione e protezione.

    Al Dio-padre, e ai suoi officianti, il credente chiede: assoluzione dai peccati commessi ed assicurazione contro le colpe future.

    Così, nella dimensione religiosa, all’interno della dicotomia disobbedienza-obbedienza al precetto, manifesta la sintomatologia del “complesso del padre”.

    Come un nevrotico, cerca di mediare tra coazione a soddisfare le spinte libidiche e coazione ad inibirle. Impegnato a rimuovere i desideri profondi e a razionalizzarli in fobia, è schiacciato dal suo conflitto interiore.

    Cerca aiuto. E spera di trovarlo nel sistema di prescrizioni religiose. Qui, l’Io scambia il sacrificio con la ricompensa promessa: “L’Io si sente elevato, prova orgoglio per la rinuncia pulsionale come per un atto di gran valore. [...]Quando l’Io offre al Super-io una rinuncia pulsionale, si aspetta in compenso più amore.” (ibidem, p. 435).

     E’ un investimento affettivo che non ammette dispersioni (altri dei). E’ ristabilita la maestà dell’Unico Dio-Padre. Così, il popolo ebraico “in una nuova ebbrezza di ascesi morale [...] s’impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici che erano rimasti inaccessibili agli altri popoli antichi” (ibidem, p. 450).

    E’ un sentimento che ritorna anche nel cristianesimo. Anzi, l’accresciuto senso di colpa per un’umanità strutturalmente peccatrice, nella “buona novella” rinsalda a tal punto l’autorità paterna, da tributarle il martirio del figlio, nella speranza di una assoluzione-redenzione universale: “siamo redenti da ogni colpa dacché uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci” (ibidem, p. 451).

    Se per gli ebrei è centrale la partecipazione al progetto di Dio sulla terra e, in questo impegno il popolo ebraico si sente eletto; per i cristiani subentra la liberazione di essere i redenti. Non a caso, in questa religione assume preminenza un Dio Padre Amore, che compensi la sottomissione-espiazione richiesta con un rassicurante valore di senso dato all’Universo.

    Un Dio onnisciente ed onnipotente con cui annebbiare la individuale responsabilità della scelta e tenere in scacco le incognite e le paure della fatica di vivere.

    Un Dio-Provvidenza che compia il suo disegno finanche in un’altra vita.

    Esaurita quella biologica, il credente anela infatti ad una perfetta quanto infinita beatitudine, come compimento vero ed ultimo dell’universale provvidenza: “Alla fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione, se non già in questa forma della vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano dopo la morte.

    In tal modo tutti i terrori, le sofferenze e le asperità della vita sono destinati alla cancellazione[...]”; “Mediante il benigno governo della Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata, l’istituzione di un ordine morale universale assicura l’appagamento dell’esigenza di giustizia, che nella civiltà umana è rimasta così spesso inappagata, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una vita futura istituisce la struttura spaziale e temporale in cui questi appagamenti di desideri devono trovare il loro compimento” (L’avvenire di un illusione, cit., pp. 159; 170).

    Un’aspirazione alla felicità alienata e sublimata in una mitica anima, purificata da tutta una vita di inibizioni offerte in sacrificio, ma che alla fine prenda posto accanto al Dio-Padre-Provvidenza nell’immaginifico cielo.

    Qui, senza più corpo che spinga agli appetiti pulsionali (peccati), sarà finalmente pacificata in seno al Super-io deificato. E’ l’adempimento della escatologia, di cui il fedele può avere qualche sentore nell’Eucarestia.

  • =omegabible=
    00 27/04/2012 18:16

    Maria Mantello è una donna fantastica per acume ed intelligenza.

    La conosco da diversi anni ed è fra l'altro direttrice del periodico
    "Libero Pensiero" e Presidente dell'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

    www.periodicoliberopensiero.it


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    Sonnyp
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    00 28/04/2012 12:29
    Più chiaro di così!

    Non si perdonava al fondatore della psicanalisi di aver spiegato che la religione è un’illusione, dove il credente smarrisce il senso della realtà a vantaggio di fantasie psichiche, che diventano delirio collettivo nell’acquiescenza del gruppo.

    In Psicologia delle masse ed analisi dell’Io (1921), Freud parla di annullamento della personalità cosciente e di rapimento ipnoide degli individui, che pensano per immagini prive di riscontro empirico.

    Poiché nella religione, la fede è premessa, mezzo e fine, si comprende come i meccanismi d’induzione suggestionale possano essere talmente contagiosi per i credenti, da renderli impermeabili a dubbi e incertezze. “Noi crediamo per fede!”

    In questo motto si corazza l’automatismo psichico, mentre la singolarità annega nell’omologazione identitaria.




    la religione è un’illusione,dove il credente smarrisce il senso della realtà a vantaggio di fantasie psichiche, che diventano delirio collettivo nell’acquiescenza del gruppo.

    Quando l'uomo, il credente in generale, riuscirà a capire questo, avrà già fatto un grosso passo avanti.



    Poiché nella religione, la fede è premessa, mezzo e fine, si comprende come i meccanismi d’induzione suggestionale possano essere talmente contagiosi per i credenti, da renderli impermeabili a dubbi e incertezze. “Noi crediamo per fede!



    Ecco, questo è il punto!

    L'ateo, avendo fatto spazio alla fede, in cambio della razionalità, non ha più bisogno di credere per fede, crederà nella insesitenza di dio per sua personale e diretta comprensione che dio non esiste.
    Non ha bisogno d imanuali.... o di autori che scrivono sull'argomento personali convinzioni...
    o di gruppi a cui associarsi per sentirsi forte e convinto che la sua sia la scelta giusta.... Ecc. ecc. ecc!

    Egli sara "ateista" per diretta e personabilissima sua scelta! STOP!

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