00 07/10/2014 07:41
Lo Spirito Santo ha ispirato?

Con il permesso dell'autore, Mario70, posto questo argomento che trovo davvero interessante sulla autorità che alcuni discepoli si sono presi citanto il proprio maestro come autore della lettera a lui intestata. È un po' lungo, ma credetemi... ne vale davvero la pena leggerlo tutto, (magari anche a puntate... [SM=x3690210] per riflettere e documentarsi con cognizione di causa sull'autorevolezza di dette lettere contenute nella bibbia. Shalom.

Barth Herman è considerato il successore del grande Metzger, affronta in questo libro le motivazioni che hanno spinto i teologi ad accettare un libro scritto "sotto falso nome" come ispirato da Dio stesso, io mi sono fatto le sue stesse domande e ad oggi non riesco a dargli torto, voi che ne pensate?
Ecco le sue cnclusioni:


Ci sono poi altri studiosi i quali, non volendo che i loro lettori pensino male dei falsi (soprattutto di quelli contenuti nella Bibbia), non si limitano a sostenere che i falsari non avevano intenzione di ingannare i lettori, ma forniscono ragioni e circostanze in cui l’uso di un nome falso era considerato accettabile nell’antichità. Questi studiosi possono essere raggruppati in tre principali scuole di pensiero.

La pseudo-epigrafia ispirata

Secondo un’idea diffusa da anni fra gli studiosi, quando un autore cristiano antico scriveva un libro sotto il nome di qualcun altro, lo faceva perché ispirato dallo Spirito divino. Se sostenuta schiettamente, la tesi somiglia più a una convinzione di natura teologica (forse non delle migliori); ma non è necessariamente così. Non si deve per forza pensare che lo Spirito Santo abbia letteralmente ispirato una persona a scrivere in un determinato modo; si può anche ipotizzare che la persona credeva di essere mosso dallo Spirito Santo a scrivere sotto il nome di un’antica autorità cristiana. Per la persona che credeva di essere ispirata, le parole che scriveva venivano da un’autorità inappuntabile (per esempio un apostolo).
Uno dei principali sostenitori di questa corrente è stato lo studioso tedesco Kurt Aland, il quale sosteneva che i primi “profeti” cristiani credevano di essere ispirati dallo Spirito Santo e pertanto esprimevano una sorta di “parola profetica”, la cui autorità non riposava su di loro, ma sullo Spirito Santo. Solo in seguito le “autorità” cristiane avevano cominciato a mettere per iscritto queste parole profetiche. Un autore quindi non poteva scrivere impiegando il proprio nome, come se la sua personale autorità potesse sostenere un’idea o delle parole che venivano dallo Spirito Santo. L’autore, invece, secondo Aland, era una specie di strumento usato dallo Spirito Santo (almeno questa era la convinzione dell’autore) per trasmettere il proprio messaggio. Lo studioso sosteneva:

Non solo era irrilevante lo strumento [l’autore in carne e ossa] attraverso cui il messaggio era trasmesso, ma […] sarebbe equivalso a una contraffazione persino nominare questo strumento, perché […] non era l’autore materiale dello scritto a parlare, bensì il testimone autentico, lo Spirito Santo, il Signore, gli apostoli.

Di conseguenza:

Quando gli scritti pseudonimi del NT sostenevano di essere stati scritti soltanto dagli apostoli più importanti, non si trattava di un abile sotterfugio dei cosiddetti falsari, al fine di garantire la migliore reputazione e la più ampia circolazione alle loro opere, bensì della logica conclusione del presupposto secondo cui l’autore era lo Spirito Santo stesso.

Nonostante la popolarità di cui una volta godeva fra alcuni studiosi, questo modo di vedere non ha mai preso davvero piede. Per un verso, non ha senso dire che nella più antica tradizione cristiana gli autori rifiutavano di servirsi del proprio nome, perché era lo Spirito Santo a parlare per mezzo loro. Il primo vero autore fu Paolo e Paolo impiega il proprio nome.
In secondo luogo, se gli autori volevano sostenere che era lo Spirito Santo a parlare per mezzo loro ovvero che non fondavano il loro messaggio sulla propria autorità, perché non dire semplicemente «così dice il Signore», «così dice lo Spirito Santo»? Perché dire di essere un altro essere umano – Pietro o Paolo o Giacomo – sapendo molto bene di non esserlo? In sostanza, questa idea può spiegare i primi scritti anonimi, ma non spiega l’unica cosa che vorrebbe spiegare: i primi scritti pseudonimi. In particolare, non spiega perché un autore si servirebbe di un nome anziché di un altro: se a ispirare lo scrittore è stato lo Spirito Santo, perché dice di essere Pietro? Perché non Giovanni o Paolo o Giacomo? O, come suggerivo, perché non fare del tutto a meno di un nome? Di conseguenza, questa spiegazione, sebbene interessante, non convince affatto.

Riattualizzare la tradizione.

L’altra spiegazione è un po’ più complicata. In sintesi, se un autore pensava di rappresentare una concezione espressa da un famoso autore che lo aveva preceduto (nel frattempo scomparso, per esempio), poteva scrivere un documento in nome di quella persona. Lo scopo non era sostenere che era quella persona, ma suggerire che le concezioni esposte nel documento erano quelle espresse da un’autorità più antica. O almeno quelle che quest’autorità avrebbe espresso se fosse stata ancora in vita e avesse dovuto fronteggiare la nuova situazione che si era venuta a creare dopo la sua morte.
Il termine tecnico per questo modo di procedere è “riattualizzare la tradizione”. Con “tradizione” s’intende qualsiasi concezione, insegnamento o narrazione trasmessi per via scritta o orale. Una tradizione viene “riattualizzata” quando è resa di nuovo attiva e rilevante in una situazione mutata.
Supponiamo che nel 1917 un autore molto importante condannasse i cristiani che bevevano alcolici, perché fanno perdere il controllo e spingono a comportamenti irresponsabili. Cinquant’anni dopo, emerge un problema nuovo: la gente ha cominciato a fare uso di sostanze allucinogene. Un nuovo autore, che vive nel 1967, scrive un saggio in cui sostiene di essere il famoso autore del 1917, condannando non soltanto il consumo di alcolici, ma anche quello di sostanze stupefacenti. Questo nuovo autore s’inserisce nella tradizione del suo predecessore e rende la tradizione applicabile alla situazione “attuale”. In altre parole, ha “riattualizzato” la tradizione. Richiamando il nome dell’autore del 1917, non sostiene di essere quella persona ma di continuare la tradizione di quella persona.
Questa è in breve la teoria che è stata applicata da alcuni studiosi al fenomeno della pseudo-epigrafia nel Nuovo Testamento. Come ha evidenziato uno studioso inglese, la pseudonimia era «una pratica accertata, che non era vòlta a ingannare»: un autore pseudo-epigrafico che proseguiva la tradizione di un autore precedente «poteva presentare il suo messaggio come il messaggio di chi aveva dato origine al filone di quella tradizione, perché così appariva ai suoi stessi occhi […]. Non c’era alcuna intenzione di ingannare, e quasi sicuramente i lettori finali, di fatto, non si sentivano ingannati».
Uno dei problemi principali di questa teoria credo sia evidente. Se chi ha contraffatto le lettere – poniamo – di Pietro e di Paolo nel Nuovo Testamento non avesse avuto l’«intenzione di ingannare», e «di fatto» non ingannava nessuno, come mai tutti (per molti, molti secoli) sono stati tratti, di fatto, in inganno? Per diciassette secoli, tutti quelli che hanno letto queste lettere hanno pensato che le avessero scritte Pietro e Paolo. Ancora una volta ci troviamo di fronte alla domanda: quali prove abbiamo che “riattualizzare la tradizione” assumendo un nome falso fosse una pratica diffusa e accettabile?
Il principale esponente di quest’orientamento è lo studioso americano Davide Meade, che ha pubblicato la sua tesi di Ph.D. sull’argomento. Meade sostiene che le prove di una pratica del genere vengono dalla Bibbia ebraica. Era consuetudine, afferma, che scritti di vari autori fossero tramandati sotto il nome della persona che aveva dato origine a quella tradizione cui sentivano di appartenere. Per esempio, gli studiosi della Bibbia ebraica hanno sostenuto per oltre un secolo che il Libro di Isaia non fosse stato composto interamente dal famoso Isaia di Gerusalemme nell’VIII secolo a.C. I capitoli 40-55, per esempio, sono stati scritti quasi certamente da qualcuno vissuto centocinquant’anni dopo, durante la cattività babilonese.
Come osserva Meade, quei capitoli furono tramandati come parte del Libro di Isaia. Ma, secondo Meade, l’autore non aveva intenzione di ingannare i suoi lettori inducendoli a pensare che a scrivere quei capitoli fosse stato davvero Isaia di Gerusalemme un secolo e mezzo prima. Meade sostiene che stava semplicemente affermando di appartenere alla stessa tradizione profetica di Isaia. Lo stesso si può dire per gli undici capitoli finali dello stesso libro, che furono scritti da un terzo autore, vissuto più tardi ancora. Secondo Meade, chiamando questi autori successivi “Isaia”, gli ebrei non si riferivano alle «origini letterarie» dei loro scritti (ovvero a chi materialmente aveva scritto i libri), ma alla loro «autorevole tradizione» (ovvero alla tradizione – quella di Isaia – che intendevano proseguire nel nuovo contesto).
Meade trova traccia di questo tipo di tradizione anche in altre parti della Bibbia ebraica e pertanto conclude che, nel caso del Nuovo Testamento, gli autori si siano comportati in modo molto simile. L’autore della Seconda lettera di Pietro, che non era Pietro, sostiene di essere l’apostolo non perché vuole che la gente pensi che lo sia. Non intende mentire sulla propria identità. Sta solo indicando a quale tradizione – quella di Pietro – sente di appartenere.
Molti studiosi sono rimasti affascinati da questa teoria, poiché riesce a spiegare in che modo gli autori potevano fare affermazioni false sulla propria identità senza mentire; inoltre sembra calzare nel caso dell’antica tradizione ebraica. Ciò nonostante, la teoria presenta dei gravi problemi.
Per un verso, non trova riscontro nella maggioranza delle testimonianze. Non sappiamo con certezza chi scrisse i capitoli 40-55 del Libro di Isaia, sappiamo solo che: primo, a scriverli non fu Isaia di Gerusalemme; secondo, probabilmente fu un Israelita vissuto durante la cattività babilonese. Non sappiamo se abbia aggiunto fisicamente i suoi testi a quelli di Isaia di Gerusalemme (sullo stesso rotolo) o se invece abbia scritto il suo libro utilizzando le idee del suo predecessore. Questo per dire che può esser stato qualcun altro a mettere insieme i due brani di testo, e quindi che l’autore di ciò che oggi sono quei capitoli non abbia sostenuto di essere Isaia, ma che abbia soltanto scritto in maniera anonima. Inoltre, in nessun luogo l’autore dice di essere Isaia. Cosa che contrasta fortemente con l’autore della Seconda lettera di Pietro che sostiene invece di essere Pietro, o con l’autore della Lettera agli Efesini, che sostiene di essere Paolo.
C’è un problema più grave. Gli scrittori del I secolo – cioè dell’epoca in cui furono scritti i libri del Nuovo Testamento – non sapevano che i capitoli 40-55 del Libro di Isaia non erano stati scritti da Isaia di Gerusalemme. Al contrario, era opinione diffusa che fosse proprio Isaia l’autore di tutti i testi che andavano sotto il suo nome! Questa concezione secondo cui gli autori posteriori stavano riattualizzando la tradizione si basa su ciò che noi uomini del XX secolo pensiamo della paternità dei libri della Bibbia ebraica, ma che il mondo antico ignorava completamente. Non c’è alcun autore antico che ne faccia menzione. Un uomo del I secolo, come l’autore della Lettera ai Colossesi, che modo aveva di sapere cosa era accaduto agli scritti di Isaia cinque secoli prima? Viveva in un altro paese e parlava una lingua diversa; non era ebreo, e aveva letto Isaia in greco anziché in ebraico; e per lui tutto il Libro di Isaia era opera del famoso profeta.
Ma la teoria presenta un altro problema ancora. Quando anche fosse vero che l’autore della Seconda lettera di Pietro pensava di proseguire la tradizione di Pietro, ciò bastava a giustificare la sua dichiarazione di essere l’apostolo? Che senso ha sostenere di essere la persona di cui si abbracciano le convinzioni? Una delle ragioni per cui questa teoria è fallace sta nel fatto che c’erano molti cristiani che sostenevano posizioni molto diverse, alcune in forte contrasto fra loro. Come avrebbero reagito i sostenitori di una determinata tradizione di fronte a chi sosteneva di appartenere a quella stessa tradizione, ma aveva un’opinione diversa? Si pensi all’autore delle Lettere pastorali, il quale dice di essere Paolo sebbene non sia l’apostolo, o all’autore degli Atti di Paolo, che dice di esprimere le posizioni di Paolo, sebbene non sia per niente così. I due autori sostengono posizioni opposte sulle donne e sul loro ruolo nella chiesa. Dobbiamo dunque pensare che i primi cristiani che accettavano le concezioni espresse nelle Lettere pastorali traessero accettabile che l’autore degli Atti di Paolo mettesse in bocca a Paolo parole che l’apostolo non aveva mai pronunciato? Certamente no. E l’autore degli Atti di Paolo avrà trovato accettabile che l’autore delle Lettere pastorali sostenesse di essere Paolo, sebbene non lo fosse? No davvero. Ciascuno di questi autori come avrebbe definito l’altro? L’avrebbe definito un bugiardo. E avrebbe etichettato le opere dell’altro pseuda (falsi, menzogne) e notha (bastardi).

Le scuole filosofiche

Ma c’è un’altra ragione per la quale la teoria di Meade sulla contraffazione non funziona: la maggioranza degli autori del Nuovo Testamento non s’inseriva nella tradizione ebraica. Erano dei gentili. E quindi altri studiosi hanno tentato di trovare elementi su cui fondare la legittimità degli pseudo-epigrafi all’interno della tradizione pagana, in cui questi autori affondavano le proprie radici. Secondo questi studiosi, era pratica comune che i discepoli di un filosofo scrivessero dei trattati senza firmarli con il proprio nome, bensì con quello del maestro. Il che – almeno così si suppone – era considerato un atto di umiltà, poiché gli autori sentivano che le idee espresse in realtà non erano le loro, ma gli erano state suggerite dal fondatore della scuola filosofica di cui facevano parte. Pertanto, come forma di riconoscimento, attribuivano il nome del maestro ai propri scritti.
Secondo alcuni studiosi del Nuovo Testamento, ciò potrebbe spiegare perché gli autori della Lettera ai Colossesi o di quella agli Efesini o delle Lettera pastorali sostenessero di essere Paolo. In uno dei commenti classici alla Lettera ai Colossesi, per esempio, si legge: «I documenti pseudonimi, in particolare le lettere di contenuto filosofico, erano messi in circolazione perché i discepoli di un grande personaggio intendevano esprimere, attraverso l’imitazione, la loro venerazione per il rispettato maestro e garantire o promuovere la sua influenza su una generazione successiva in circostanze mutate». Un commentatore più recente fa un’affermazione simile a proposito della Lettera ai Colossesi e di quella agli Efesini: «Non si pensi che ritenere i Colossesi (o gli Efesini) deutero-paolini significhi che questi documenti altro non erano se non mere contraffazioni. Scrivere sotto il nome del filosofo, per esempio, presso il quale si studiava, poteva esser visto come un segno di rispetto tributato a quella persona».
Va rilevato che – come spesso accade – nessuno di questi commentatori adduce prove a dimostrazione della propria tesi, cioè che si trattava di una pratica comune nelle scuole di filosofia. Lo affermano come se fosse un fatto. Ma perché? Perché l’hanno sostenuto molti altri studiosi del Nuovo Testamento! Provate a chiedere a qualche fautore di questa teoria quale fonte o quale filosofo dell’antichità affermi che si trattava di una pratica comune. Il più delle volte resteranno muti.
Gli studiosi che invece citano le testimonianze antiche per questa presunta pratica di solito indicano due fonti principali. Peccato che una delle due non dica questo. Si tratta del filosofo neoplatonico Porfirio, vissuto nel III secolo, il quale – apparentemente – avrebbe detto che nella scuola di Pitagora (vissuto un centinaio d’anni prima) era pratica comune per i discepoli scrivre libri e firmarli con il nome del maestro. Questa frase di Porfirio è piuttosto difficile da rintracciare, perché non è contenuta fra gl iscritti greci del filosofo che sono giunti fino a noi; ma si trova in una traduzione araba risalente al XIII secolo di una delle sue opere.
Dubito che qualcuno degli studiosi del Nuovo Testamento che fa riferimento a questa frase di Porfirio l’abbia mai letta davvero, d’altro canto è in arabo e la maggio parte degli studiosi del Nuovo Testamento non conosce l’arabo. Come non lo conosco io. Lo conosce invece un mio collega, Carl Ernst, che è un esperto di islam medievale. Così gli ho chiesto di tradurmi il passo di Porfirio. In sostanza, Porfirio non dice niente riguardo ai seguaci di Pitagora che scrivevano libri firmandoli con il nome del grande filosofo. Dice invece che Pitagora fu autore di ottanta libri, che i suoi seguaci ne scrissero duecento e che dodici erano stati “contraffatti” sotto il suo nome. I dodici libri sono disapprovati perché sfruttano il nome di Pitagora senza che lui li abbia scritti. I falsari sono definiti «persone senza vergogna» che «hanno fabbricato libri falsi». Degli altri duecento libri scritti dai seguaci di Pitagora non ci dice che erano stati firmati con il nome del filosofo; erano semplicemente libri scritti dai seguaci del filosofo.
Questa, dunque, è una delle due fonti antiche citate dagli studiosi per dimostrare che la pratica di scrivere sotto il nome del proprio maestro era “comune”. Va segnalato che, negli altri scritti di Porfirio, proprio come in questo passo, il filosofo dimostra un grande interesse a sapere quali libri siano autentici e quali falsi, esprimendo riprovazione per questi ultimi, fra cui il Libro di Daniele nell’Antico Testamento, che secondo lui non poteva essere stato scritto da un Israelita del VI secolo a.C.
L’altro riferimento a una tradizione diffusa fra le scuole filosofiche dice esattamente ciò che gli studiosi le hanno fatto dire. Si tratta degli scritti di Giamblico, un altro filosofo neoplatonico quasi contemporaneo di Porfirio. Nella sua Vita pitagorica, Giamblico afferma: «Nobile è anche il loro costume di ascrivere ogni cosa a Pitagora, senza mai fare, tranne qualche rara volta, un motivo di gloria personale delle proprie scoperte. È per questo del resto che sono pochissimi quelli di cui siano noti gli scritti».
Ci sono molti problemi nel vedere in quest’affermazione una prova di quanto “di solito” accadeva nelle scuole filosofiche antiche come un modello cui gli autori cristiani si rifacevano quando sostenevano di essere Pietro, Paolo, Giacomo, Tommaso, Filippo e altri:

1. Per esercitare un’influenza così forte su una così ampia scelta di autori cristiani antichi, questa tradizione doveva essere molto nota. Ma non era così. La tradizione non è citata da un solo autore vissuto nel periodo compreso tra Pitagora (Vi sec. a.C.) e Giamblico (III-IV sec. d.C.). Pertanto non c’è nulla che induca a ritenere che questa pratica fosse diffusa. Semmai il contrario: nessuno sembra saperne nulla per ottocento anni.
2. Più nel dettaglio, Giamblico visse duecento anni dopo le due lettere di Pietro e le deutero-paoline. Non esiste alcun riferimento a questa tradizione per il periodo in cui fu scritto il Nuovo Testamento. A quel tempo non poteva essere ritenuta una pratica accettata.

3. Giamblico descrive quello che accade in una sola delle molte scuole filosofiche. Non parla di una tradizione più ampia al di fuori delle cerchie pitagoriche.

4. Come hanno dimostrato recentemente alcuni studiosi di pitagorismo, è ragionevole ritenere che quello che afferma Giamblico non valesse neanche per le scuole pitagoriche.

a) In primo luogo, Giamblico scrive ottocento anni dopo Pitagora e non aveva alcun modo di sapere se quanto affermava fosse vero. Potrebbe essersi trattato di una semplice supposizione.

b) Nessun altro filosofo o storico che parli di Pitagora e della sua scuola prima di Giamblico dice niente a proposito di opere pseudonime scritte sotto il suo nome.

c) Il commento di Giamblico è completamente occasionale e improvvisato.

d) Per giunta, laddove l’affermazione di Giamblico può essere sottoposta a verifica, risulta sbagliata. La stragrande maggioranza dei testi della scuola pitagorica non fu scritta sotto il nome di Pitagora. I suoi seguaci scrissero usando il proprio nome.

Di conseguenza, il breve e occasionale commento di Giamblico (il quale – non dimentichiamolo – visse più di duecento anni dopo Paolo e Pietro) non può affatto essere assunto come prova di quanto accadeva al tempo di Pitagora e dei suoi studenti (seicento anni prima di Paolo e Pietro), per non parlare di quello che era prassi nelle scuole filosofiche o di quello che probabilmente accadeva nel cristianesimo delle origini.
Pertanto, gli studiosi del Nuovo Testamento dovrebbero rivedere le loro concezioni sulle scuole filosofiche e sul loro impatto sulla pratica della contraffazione fra i primi cristiani. In pratica, nulla induce a ritenere che in queste scuole avesse corso la tradizione di praticare la pseudoepigrafia come atto di umiltà, perché gli consentiva di parlare di quello che è accaduto nella tradizione letteraria del cristianesimo antico, senza essere costretti ad ammettere che i primi autori cristiani erano colpevoli di contraffazione.

(EHRMAN, BART D., Sotto falso nome. Verità e menzogna nella letteratura cristiana antica, Roma, Carocci 2012, pp. 120-128)